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La Tragedia dei “Beni Collettivi”

15 giugno 2011

di Robert J. Smith*

Il senso della “proprietà pubblica” è che le risorse sono in comune fra tutti: tutti sono “proprietari” e tutti le possono utilizzare. Senza dubbio, la proprietà pubblica è un mito; di fatto essa non è proprietà. Come dice F.A. Harper: “Un punto fondamentale del diritto di proprietà è quello di potersi disfare della proprietà stessa. Se io non posso vendere una cosa significa che non ne sono proprietario”. Chiaramente è questo il caso della proprietà pubblica; non solo nessuno può reclamare, o abitare, la parte che gli corrisponde, ma non può nemmeno disfarsi, vendere, quella parte. Gode solo del diritto di utilizzarla, non di possederla. E quel “diritto di utilizzarla” è solo “un privilegio” che lo Stato può abrogare quando vuole. Il biologo ed ecologista Garrett Hardin ha definito questo problema “la tragedia dei beni collettivi”. …

In Exploring New Ethics for Survival: The Voyage Of the Spaceship Beagle Hardin ha scritto: “La tragedia dei beni collettivi si presenta così. Immaginate un allevamento aperto a tutti. Si può star certi che ogni allevatore cercherà di avere quanti più animali possibili nel recinto. Questo artificio potrebbe magari funzionare per lungo tempo, qualche secolo, per il solo fatto che le guerre fra tribù, i furti, le malattie manterrebbero il numero degli uomini e degli animali ben al di sotto della capacità produttiva della terra. Però, alla fin fine, arriva il giorno del giudizio… Allorquando la logica dei beni collettivi genererà l’inevitabile tragedia. In quanto essere razionale, ogni allevatore cercherà di guadagnare il massimo. Esplicitamente o implicitamente e più o meno coscientemente chiederà: quanto guadagno se aggiungo un animale in più al mio recinto? Questo guadagno ha una componente negativa ed una positiva. La componente positiva è l’aggiunta di un animale nel recinto. Non appena l’allevatore riceve tutti i guadagni dalla vendita dell’animale in più, il suo guadagno in positivo è quasi +1. La componente negativa è dovuta al consumo addizionale di fieno dovuto alla presenza di un ulteriore animale. Ovviamente, poiché gli effetti dell’uso eccessivo di fieno sono ripartiti tra tutti gli allevatori, il guadagno in meno per ciascun allevatore che fa la scelta di avere un animale in più è pari a solo una frazione di 1. Sommando i parziali vantaggi del caso, l’allevatore razionale conclude che tanto vale aggiungere un altro animale al suo recinto. E poi un altro… e così via Però, questa è anche la conclusione a cui giungono tutti gli allevatori che condividono la proprietà comune. Proprio in questo sta la tragedia. Ogni uomo agisce dentro un sistema che lo induce ad incrementare i capi del suo recinto senza limitazioni, all’interno di un sistema che invece è limitato. Il fallimento è, insomma, il destino di tutti coloro che intendono massimizzare il proprio interesse all’interno di una società che si fida della libertà dei beni collettivi. La libertà dei beni collettivi ha come conseguenza la rovina di tutti”.

Hardin intuisce il problema dei beni collettivi meglio di tutti i suoi colleghi. Nonostante ciò, anche lui, fors’anche per le intrinseche difficoltà che sottendono il passaggio da un sistema pubblico ad un sistema privatistico, sembra accondiscendere ad alcune forme di controllo di tipo socialista. Gli economisti, in fatto di “risorse di proprietà comune” hanno prodotto un vasto numero di pubblicazioni inerenti i problemi causati dal sistema dei beni collettivi. La maggior parte degli ecologisti non ha ancora preso atto delle analisi di Hardin e continuano a pensare che gli animali selvatici siano proprietà di tutti e che sia gli oceani, sia quel che essi contengono siano un patrimonio dell’umanità, che si tramanda come fosse un’eredità comune. Il risultato inevitabile di questo loro “sistema” è esattamente il contrario di quanto essi pretendono, ovvero conservare l’ambiente.

Qualsiasi risorsa comune, sia la terra o l’aria, l’atmosfera o lo spazio, gli oceani, i laghi e i fiumi, le montagne, i pesci, gli animali in genere e la selvaggina, i giacimenti di petrolio americani e molto altro ancora, può essere utilizzata contemporaneamente da più di un individuo o gruppo. Nessun individuo, per gli ecologisti, ha il diritto esclusivo su una risorsa naturale, né ha il diritto di vietarne l’uso ad un altro. Per natura le risorse sono “beni collettivi” e al contempo non appartengono a nessuno. E dato che tutti le possono usare, si estinguono e si sprecano rapidamente e totalmente.

La proprietà privata, all’opposto di quella pubblica, permette al proprietario di disporre del valore effettivo, e totale, delle sue risorse e, come conseguenza, l’incentivo economico che gli deriva lo porta a conservare il proprio bene per lungo tempo. Il proprietario di una risorsa (una miniera, la pesca, un bosco, ecc.) vuole poter produrre oggi, domani, ma anche fra dieci anni. E con una risorsa rinnovabile cercherà di assicurarsi una produzione permanente. Consapevoli della natura umana e delle motivazioni date dall’incentivo economico, possiamo capire perché il bisonte americano è in pericolo di estinzione, ma le mucche di Hereford e del Jersey no; perché la quaglia Atwater è in pericolo, ma le galline di Rhode Island Red o di Leghorn o di Barred Rock no.

Con le risorse in proprietà comune, invece, gli utilizzatori non possono recuperare alcun valore effettivo. In questo caso, l’unico modo per assicurare valore economico ad una risorsa è quello di sfruttarla il più rapidamente possibile, prima che qualcun altro lo faccia. Ha detto Hardin: “L’oceano è un bene collettivo dove può pescare chi ne abbia voglia. La libertà dei mari significa la libertà dei beni collettivi, il che porta inevitabilmente alla rovina”.

Nonostante la quantità di pesci nei mari diminuiscano giorno dopo giorno, i pescatori di molti paesi cercano di incrementare il loro pescato acquistando mezzi sempre più sofisticati per localizzare, conservare e trasportare la loro merce sui mercati. Una società dedita allo sviluppo tecnologico definisce questo comportamento come il modo giusto di fare le cose. Una logica tipica delle società in cui la proprietà delle risorse è comune. Le conseguenze sono state descritte con precisione da Paul e Anne Ehrlich nel libro Population, Resources, Environment: Una sola ‘nave-fabbrica’ rumena, equipaggiata con le attrezzature più moderne, ha pescato nelle acque della Nuova Zelanda, in un sol giorno, tante tonnellate di pesce quanto quelle di tutta la flotta neozelandese, composta da 1500 barche. Una rivista norvegese ha scritto, nel 1966, “che la pesca industrializzata di aringhe è arrivata alle Isole Shetland dove 300 imbarcazioni norvegesi e islandesi, equipaggiate di sonar, hanno pescato quantità favolose di aringhe”. La rivista chiedeva: “Si vendicherà l’industria della pesca britannica usando le stesse tecnologie per incrementare la propria pesca di aringhe? In questo caso cosa accadrà alle Isole Shetland nell’immediato? Si uniranno agli altri pescatori per approfittare dell’abbondanza di aringhe o vedranno diminuire le proprie risorse di pesce a causa delle nuove tecniche adottate da norvegesi e britannici”? La risposta è ovvia. Nel gennaio del 1969 i giornali britannici annunciarono che l’industria dell’aringa sulla costa orientale del paese era finita. Le nuove barche supertecnologiche avevano pescato anche le aringhe più giovani, sfuggite alle maglie larghe delle reti britanniche, interrompendone la procreazione.

Logicamente, non dovremmo lasciare alla tecnologia la soluzione dei problemi dell’eccessiva pesca oceanica. Serve un cambio politico. Il miglioramento tecnologico, nelle proprietà comuni, non fa che avvicinare il giorno della rovina finale.

La prima reazione alla possibilità di rovina e distruzione, quando di mezzo ci sono le risorse comuni, è l’appello alla coscienza e alla responsabilità. L’appello, ovviamente, non sortisce alcun effetto. Durante gli anni 1950-1951 sono state pescate circa 7000 balene azzurre. L’anno successivo la pesca è scesa a 5000 esemplari. Durante il 1955-1956 era scesa a soli 2000 capi. Tre anni dopo a 1.200 ed ha continuato a diminuire. La storia di tutte le altre specie di balene è simile. Il loro numero si è talmente ridotto che, salvo Giappone e Russia, tutti gli altri paesi hanno smesso di pescarle in alto mare. La commissione internazionale per la pesca alle balene (IWC) si riunisce ogni anno e suggerisce il numero di esemplari da catturare per l’anno successivo. Ogni anno, Giappone e Russia, ignorano le raccomandazioni e pescano molto di più. L’anno dopo, le balene sono meno, i suggerimenti dell’IWC ancor più restrittivi; la spirale non si interrompe mai. L’unica arma rimasta alla IWC è l’appello alla coscienza altrui. Dovremmo condannare Giappone e Russia perché non rispettano gli appelli dell’IWC? Dovremmo diffamarli (come qualche ambientalista peraltro fa ndr) per il loro “egoismo”? Se lo facessimo non faremmo altro che dimostrare che non abbiamo capito nulla delle lezioni dateci dalla “teoria dei beni collettivi”. Ogni paese, implicitamente, ragiona così: “Dobbiamo pescare le balene prima che qualche altro nostro competitore lo faccia. Le balene non verrebbero salvate dalla nostra moderazione. Nostre azioni unilaterali di stop alla pesca favorirebbero solo i nostri concorrenti, che approfitterebbero della ricchezza rimasta”. Insomma, in presenza di “risorse comuni”, le persone di buon senso non agirebbero in altro modo.

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